Le frequenti nevicate che si sono succedute dallo scorso mese di novembre sulle valli Superiori del Cantone, le segnalazioni di cervi e caprioli in situazioni critiche e l’intervento ampiamente mediatizzato da parte della SpaB, che mediante elicottero ha portato del foraggio in altitudine, hanno riportato alla ribalta la problematica del foraggiamento artificiale della selvaggina durante la stagione invernale. Su incarico della FCTI cercherò di esporre alcune considerazioni, alla luce delle più recenti conoscenze della biologia della selvaggina.
Va subito detto che un’ estesa letteratura scientifica evidenzia come il foraggiamento artificiale degli ungulati selvatici, oltre ad avere generalmente un effetto molto ridotto o nullo sulla sopravvivenza invernale (con un costo economico invece elevatissimo), possa invece avere degli impatti negativi per gli animali stessi. Nel corso dei secoli e dei millenni il processo evolutivo delle singole specie ha fatto sì che gli ungulati selvatici abbiano imparato a sopravvivere in natura durante l’inverno e di conseguenza non necessitano di essere foraggiati dall’uomo. Essi hanno sviluppato delle strategie di adattamento che permettono loro di superare questo periodo critico dell’anno. Evidentemente questo va inteso non per ogni singolo individuo, bensì per l’intera popolazione: la selezione naturale, e l’inverno con i suoi rigori ne è uno dei fattori principali: favorisce gli individui più forti e resistenti, a tutto vantaggio della specie. Durante la stagione invernale gli animali riducono al minimo i loro spostamenti, cercano riparo nei luoghi più soleggiati e meno esposti alle intemperie, riducono notevolmente il loro metabolismo e di conseguenza il loro fabbisogno energetico (abbassamento del battito cardiaco e della temperatura corporea delle estremità, entrando in una specie di momentaneo letargo), adattano progressivamente il loro apparato digestivo a valorizzare un’alimentazione molto diversa di quella presente nella bella stagione (ricca di energia e di proteine) con una composta quasi unicamente di fibre legnose, utilizzano progressivamente le loro riserve di grasso e successivamente anche parte delle proteine muscolari. Tutto questo è possibile a condizione che l’inverno non sia particolarmente rigido (la mortalità aumenta proporzionalmente), che gli effettivi non siano in soprannumero a fine autunno (concorrenza alimentare fra molti individui a fronte di poche risorse alimentari) ma soprattutto che gli ungulati selvatici possano godere della necessaria quiete e tranquillità (il dispendio energetico durante la fuga nella neve alta aumenta fino a venti volte rispetto alla norma). Allora quale insegnamento possiamo trarre da queste considerazioni? Che cosa possiamo fare concretamente per aiutare la selvaggina in inverno? Il problema non va affrontato quando il terreno è ricoperto da un metro di neve, bensì va anticipato con misure puntuali e preventive. Una misura efficace e molto importante, da tempo sperimentata con successo nel Canton Grigioni, è una corretta gestione venatoria: gli effettivi devono essere adattati alle risorse alimentari disponibili nelle zone di svernamento, prelevando un numero sufficiente di individui in autunno, intervenendo anche su quelli più giovani che notoriamente sarebbero i primi a soccombere durante l’inverno (la mortalità dovuta alla caccia non si somma a quella naturale, bensì in parte la compensa). E’ pure molto importante garantire quiete e tranquillità, limitando al minimo il disturbo della selvaggina e questo si può ottenere istituendo (come in altri Cantoni) delle zone di riposo della selvaggina nelle quali l’accesso è regolamentato o addirittura vietato. Molte attività che l’uomo pratica durante il tempo libero nella natura durante la stagione invernale possono rompere questo delicato equilibrio (girovagare nei boschi con le racchette, magari accompagnati da cani non tenuti al guinzaglio, scorrazzare per puro divertimento con motoslitte, setacciare i boschi alla ricerca di corna di cervo ecc.), con conseguenze nefaste per la selvaggina. Importante è pure il recupero degli habitat per offrire spazi adatti, magari sfalciando in altitudine superfici abbandonate dall’agricoltura e lasciando sul posto il fieno raccolto, ammucchiandolo in “mede” o ponendolo in apposite mangiatoie: questo fieno magro proveniente da superfici poco produttive e non concimate meglio si adatta alla digestione degli ungulati in inverno, rispetto a quello destinato al bestiame. Anche sul piano di prevenzione degli incidenti stradali occorre fare di più; in tal senso la FCTI sta seguendo con attenzione un esperimento praticato nel Canton Zurigo con la posa di sensori lungo le strade che avvertono acusticamente la selvaggina in procinto di attraversare, nel caso arrivi un veicolo. In tratti così segnalati la mortalità dovuta a collisioni con veicoli è drasticamente diminuita del 90%. A cosa serve infatti salvare un capriolo foraggiandolo se poi rimane investito? Per concludere, credo che portare qualche balla di fieno nel bosco, serva veramente a poco, se non a metterci in pace la coscienza o a farci pubblicità. Dr.vet. FVH Marco Viglezio.
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